Eugenio Paci, Gisma
Oggi l’esigenza di una personalizzazione del regime di screening, basata su indicatori di rischio, è sollecitata da più parti. In un recente studio osservazionale, realizzato su un milione di donne in Spagna, Norvegia e Danimarca, Martha Roman ha confermato che il richiamo per accertamento diagnostico nello screening mammografico è un importante indicatore di rischio individuale più alto sia per tumore al seno nell’intervallo che al successivo test di screening. Oggi sono in corso progetti di ricerca internazionali, come il MyPeBS (uno studio randomizzato finanziato dall’Unione Europea e coordinato dalla Francia, a cui partecipano diversi centri italiani) che hanno come obiettivo la personalizzazione dello screening e che daranno risultati tra qualche anno. In questo studio che coinvolge circa un milione di donne (50-69enni) dei tre paesi, il lungo periodo di osservazione dopo lo screening iniziale permette di separare i tumori al seno già presenti al momento del test iniziale, da quelli che sono espressione di una vera e propria condizione di aumento del rischio. Al termine del follow-up (da cui sono esclusi i casi al primo screening, che non hanno naturalmente un precedente screening), il 97% delle donne negative al test mammografico iniziale restavano fino alla fine dello studio negative per cancro, mentre le richiamate per accertamenti rimanevano negative nel 94% dei casi se avevano avuto solo un primo falso positivo e nell’87% se avevano avuto due episodi di falso positivo. Un dato che corrisponde a un rischio relativo di tumore al seno doppio per chi ha avuto un solo episodio di richiamo (da 3 casi a 6, su cento donne) e a quattro volte (13 su 100) nel caso di un doppio richiamo per accertamenti. Al termine del follow-up in queste donne vengono diagnosticati circa il 15% del totale dei casi trovati al follow-up, una proporzione importante.
Questo rischio potrebbe essere considerato nel programmare il regime successivo di screening. Oggi non esiste una raccomandazione particolare per queste donne, l’unica pratica che in qualche modo modifica la procedura corrente (che è 2 anni di intervallo nelle 50-74enni, e 1 anno nelle 45-49enni) è quello che viene chiamato early recall, un richiamo precoce rispetto all’intervallo programmato. Valutato negli anni scorsi dal Gisma, non è mai stata una pratica suggerita. Si tratta, in breve, di una indecisione diagnostica da evitare, non di un indicatore di rischio futuro.
Lo studio della Roman (al contrario di altri, però meno numerosi) non distingue il tipo di richiamo, per semplicità un richiamo con procedure invasive (agoaspirato, trucut o biopsie) da quelli che hanno previsto solo un approfondimento di diagnostica per immagini (usualmente ecografia o particolari mammografici). È noto che nel modello americano di Gail, il modello individuale di rischio più conosciuto, una precedente biopsia al seno è considerata un dato rilevante nella determinazione del punteggio (score) di rischio. Un secondo limite dello studio è che non considera la densità del seno, oggi un marker di rischio riconosciuto sia per quello che viene chiamato “effetto masking” (cioè il tumore, in questi casi, è oscurato dalla densa struttura del seno, cioè il tumore non si vede) sia, di per sé, come indicatore del rischio futuro. La valutazione di una numerosa coorte di donne del programma di screening a Firenze da parte di Ispro (Puliti et al.,BCR, 2018), ha confermato il valore di una adeguata classificazione della densità (studiata con software dedicato) per definire il rischio individuale ma non ha analizzato l’effetto combinato della densità e dei richiami, invasivi o no. Sarebbe utile approfondire, anche con altri studi nella realtà italiana, e valutare se esiste la possibilità di tenerne conto nel regime di screening.
Il fatto che questo lavoro sia stato ripreso dalla stampa quotidiana, come La Repubblica, è un segnale del forte interesse da parte dell’opinione pubblica per uno screening personalizzato rivolto a identificare le donne a maggiore rischio di tumore al seno. Lavorare in questa direzione è importante, ma non si dovrebbe sottovalutare anche l’opportunità di identificare le donne a minore probabilità di un futuro tumore al seno (basso rischio). Una questione con forti implicazioni considerando la necessità di ridurre i test di screening nell’arco della vita, alla luce della possibile relazione tra sovradiagnosi (per esempio forme in situ o a bassa aggressività) e sovratrattamento con l’intensità di screening mammografico. Questa era l’ipotesi di uno studio randomizzato, tuttora in corso ma che ha avuto purtroppo problemi nel reclutamento, lo studio Tailored Breast Screning Trial (TBST), che valuta la densità alla mammografia, ed assegna in modo random a un intervallo di 2 anni le donne 45-49enni che normalmente, in quella fascia di età, sono reinvitate a un anno. Una opportunità di personalizzazione del protocollo di screening che i dati osservazionali esistenti in alcune regioni potrebbero, forse, già consentire di valutare.