È facile dire screening. Più difficile offrire un intervento di sanità che dello screening abbia tutte le caratteristiche. Che sia strutturato come un percorso che prevede passi successivi di approfondimenti diagnostici e, eventualmente, interventi terapeutici; che abbia cura del monitoraggio nel tempo del paziente; che sia fondato in ogni suo atto su evidenze scientifiche che ne certifichino l’efficacia e l’opportunità; che abbia al suo interno momenti di valutazione di ogni step del processo. Soltanto se esistono tutte queste condizioni si può parlare di screening.
Eppure, sempre più spesso negli ultimi anni, il mondo dello screening assiste a iniziative in cui vengono offerti attivamente esami per la diagnosi precoce di tumori o altre patologie. Promosse dai più disparati attori, il più delle volte estemporanee, talvolta in contrasto con quelle che la ricerca scientifica ha etichettato come buone pratiche. Pregevole l’intenzione di avvicinare la cittadinanza alla prevenzione e all’attenzione alla propria salute. Altrettanto lodevole l’intento di far sentire al cittadino la vicinanza delle istituzioni. Tuttavia, quando il metodo non è rigoroso, il rischio è che si infonda nel cittadino un falso senso di sicurezza o, al contrario, si lasci al proprio destino un paziente che trarrebbe maggiori benefici dall’essere inserito in programmi organizzati di screening, gli unici in grado di accompagnarlo nell’intero percorso di diagnosi e assistenza. O, peggio ancora, che lo si inviti a eseguire esami sulla cui efficacia e opportunità la comunità scientifica non è affatto d’accordo.
Un dialogo da costruire
L’ultimo caso è quello promosso gli scorsi 17 e 18 giugno a Roma da Incontra Donna Onlus, con la collaborazione di Eur S.p.A. e Croce Rossa Italiana (IncontraSalute). In un parco della Capitale, sono stati allestiti ospedali da campo dove, a fianco dell’informazione alle donne sull’importanza della prevenzione, sono state offerte visite ed ecografie senologiche e Pap-test. “Iniziative come queste, che prevedono l’impegno della società civile a favore della prevenzione, potrebbero essere molto positive”, discute Marco Zappa, “Tuttavia, sarebbe opportuno che venissero realizzate in raccordo con i programmi di screening locali. Quando sono estemporanee, quando non “comunicano” con i programmi organizzati, il rischio è che l’iniziativa di prevenzione si esaurisca nel test. Sarebbe un grande risultato, invece, se queste iniziative riuscissero a raggiungere donne che in genere non rispondono alla chiamata degli screening e le indirizzassero al programma di appartenenza”. Una capacità che questa tipologia di eventi ha dimostrato di possedere. Basta osservare i dati dell’esperienza realizzata nei mesi scorsi dalla Regione Lazio (“Prevenzione Donna”) che, attraverso camper appositamente attrezzati, ha portato i test di diagnosi precoce nei posti della vita quotidiana: piazze, centri commerciali, supermercati. Qui venivano offerte mammografia, Pap test, oltre a un’ampia gamma di altre visite. La risposta della popolazione è stata importante: secondo i dati diffusi dalla Regione, circa 6.500 persone a Roma e provincia. Di queste, più di 300 hanno eseguito il Pap test e più di 1000 una mammografia. In più dei tre quarti dei casi si trattava di donne che non faceva mai o faceva raramente una visita. Da tenere in considerazione anche le motivazioni offerte dalle donne: un terzo si dichiarava allettata dalla possibilità di una visita specialistica, mentre un quarto era ben lieta di approfittare dell’occasione perché non aveva mai tempo per fare controlli. Anche in questo caso, però, il rischio che lo screening si esaurisca nell’esame è alto. E vi è anche la possibilità che il test estemporaneo interferisca con l’organizzazione dei programmi screening, inficiandone gli sforzi e portando le donne a non aderire alla chiamata. “L’Osservatorio nazionale screening è aperto al dialogo - aggiunge Zappa - e, anche se occorrerà definire le modalità della collaborazione e il modo in cui è possibile “agganciare” queste iniziative ai programmi di screening, c’è spazio per un impegno condiviso che consenta di avvicinare alla prevenzione una più larga fetta della popolazione”.
Alto rischio inappropriatezza
Diverso è il caso di quelle iniziative che propongono esami di screening in contrasto con le indicazioni della comunità scientifica. “Promuovere una campagna rivolta alla popolazione generale laddove si è sconsigliato di farlo è una mossa sbagliata”, dice il direttore Ons.
E se la comunità scientifica si sta ancora confrontando sull’opportunità di offrire lo screening per il tumore al polmone, assai più generalizzata è la riserva riguardo a quello della prostata. L’ultimo documento sul tema, realizzato dall’Osservatorio nazionale screening e firmato da 15 società e associazioni scientifiche, concludeva infatti che, nonostante numerosi studi pubblicati recentemente abbiano evidenziato la capacità dello screening con Psa di ridurre la mortalità, i dati non sono sufficienti per raccomandarne l’uso come pratica individuale o come programma di sanità pubblica.
Tuttavia, da anni si ripete la “Settimana di Prevenzione del Tumore della Prostata”, che più volte ha ricevuto il patrocinio istituzionale e promuove l’impiego su larga scala dell’antigene prostatico specifico. E sul tumore della prostata è inciampato lo stesso ministero della Salute che la scorsa estate, insieme al ministero per le Pari Opportunità, ha lanciato una campagna di prevenzione. Poco male, forse, se l’elevato numero di campagne fosse la spia di una crescita di consapevolezza e di attenzione alla prevenzione nella società. Il timore è che si tratti di un ulteriore tassello del “disease-mongering” (il termine anglosassone che descrive la spinta alla medicalizzazione), finalizzato all’ampliamento dei potenziali beneficiari delle terapie disponibili.